Montolivo è uno di quei giocatori, come Thiago Motta, che dividono il pubblico. Qualcuno gli imputa una certa lentezza. Ma, come spiega in questa conversazione, forse anche nel calcio moderno è importante che le idee, la visione siano più veloci delle gambe. Tutti i suoi allenatori lo hanno amato per una invisibile virtù, quella di dare equilibrio, dal centro del campo, a tutta la squadra. Ma il nostro tempo ama le cose esplicite, non ha la pazienza di cercare le virtù nascoste. In Montolivo io ho sentito una grande maturità, la sensazione di trovarsi di fronte a un ragazzo che è già un uomo. E lo dimostra il modo in cui reagì alla brutale aggressione subita sui social dopo il suo drammatico incidente di gioco. Pensa in campo, Montolivo. Ma non solo in campo.
Di che squadra era da bambino?
«Milan. Mio padre è milanista, grande tifoso del Milan, grande tifoso di Rivera. Mi racconta sempre del giorno, lui era presente sugli spalti, in cui Rivera con il microfono chiese ai tifosi di spostarsi perché c’era il pericolo per la fragilità della struttura della tribuna e le autorità avrebbero potuto interrompere la partita. Me lo racconta sempre, a testimoniare l’autorevolezza di Rivera. Quindi tutta la famiglia milanista, mio fratello compreso. L’appuntamento fisso che avevamo in famiglia era quello del “Novantesimo minuto” sulla Rai: io, mio fratello e mio padre ci ritrovavamo lì dopo le partite. Eravamo affezionati a quella trasmissione, oggi ne siamo un po’ nostalgici».
Che cosa ha l’Atalanta di particolare per riuscire a sfornare sempre dei giocatori di primissima qualità dal suo vivaio?
«Si cerca di dare importanza all’aspetto tecnico, tattico, calcistico, ma dà la stessa importanza anche all’aspetto umano del ragazzo, quindi la scuola, l’educazione. Ovviamente c’è una rete di osservatori che è molto forte. Serve ovviamente la materia prima, il talento, per tirar fuori dei giocatori di valore. Però credo che la forza dell’Atalanta sia quella di far crescere i ragazzi anche sotto l’aspetto umano».
C’è un regista nella storia del calcio al quale lei si è ispirato o che comunque è stato un riferimento?
«Io ho sempre ammirato moltissimo Gerrard per la sua completezza. Perché era un giocatore fantastico sotto tutti i punti di vista, sapeva fare tutte le fasi di una gara. E poi ho avuto la fortuna di giocare insieme in Nazionale, per tanti anni, con De Rossi e Pirlo che sono due registi davvero fantastici».
Quanto conta il pensiero nel calcio?
«La testa arriva prima di qualsiasi altra cosa. Prima delle gambe, prima dei piedi, prima di tutto. La partita uno la prepara, la vince anche, in molti casi prima di giocarla, nella testa. L’approccio alla partita è tutto di testa. In campo sì, ci sono momenti d’istinto, momenti in cui l’abilità tecnica ovviamente è fondamentale, ma se non c’è una predisposizione mentale, il resto non serve a niente. A questo proposito, il responsabile del settore giovanile dell’Atalanta, il mitico Mino Favini, ci ripeteva sempre che la categoria la fa la testa, non la fanno i piedi».
Cosa pensa della vicenda di Totti? Forse domani sarà la sua ultima partita…
«Con Francesco non ho avuto il piacere di giocare insieme perché il mio arrivo in Nazionale coincide con il suo addio. Stiamo parlando di uno dei giocatori più importanti nella storia del calcio italiano, ma anche internazionale. La fine della carriera arriva per tutti ma pensare ad una Roma senza Totti è veramente difficile, anche perché io Totti l’ho visto quando ero un bambino e ho cominciato ad ammirarlo allora. Non vederlo più con la maglia della Roma sarà strano per tutti i romanisti e anche per tutta Italia».
Fonte: di Walter Veltroni per il Corriere dello Sport